A Ilias, cittadina immaginaria della Campania, si assiste a un’improvvisa moria di cani, forse un’antica profezia che si avvera. Muore anche Garryowen, cane buono di nobili origini, colpito da tre proiettili durante un’aggressione a Sauro Consilia, direttore del carcere sperimentale Dostoevskij. Il suo padrone, Mimì Nasone detto Figlio delle Stelle per il tatuaggio sull’occhio destro che ricorda il trucco di Paul Stanley, cantante dei Kiss, crede che le cose siano andate diversamente da come si racconta.
Ma la verità, che si nasconde tra le lussuose ville di via Belvedere, i meandri fatiscenti delle Case Rosse e i container dove vive l’umanità degradata di Cala Renella, lo obbliga a un aspro confronto con il proprio passato.
Sono tante le storie che Luigia Bencivenga intreccia con una lingua allucinata eppure precisissima. Attori principali e comparse che emergono dal loro inferno quotidiano attraverso una narrazione il cui impeto dissacrante non risparmia proprio nessuno.
Il vizio è questione di familiarità.
Affinché il sistema circolatorio dell’unico figlio s’irrobustisca, Archina Nasone, mia madre, allunga il biberon con un Matusalem Gran Reserva, in proporzione 1:5. Quando si sparge la notizia, le mamme di Ilias, in caso di necessità, pianti irrefrenabili e più lunghi di sette minuti, ricorrono al rum-uno-a-cinque, pratica che in pubblico non mancano di stigmatizzare. Assuefatta all’alcol fin dai primi vagiti, la mia generazione è votata alla catatonia, al sofà, al materasso o ai sedili imbottiti di un’autovettura su cui noi giovanotti impariamo l’amore.